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Il tempo delle conserve

Le conserve sono un investimento per il futuro, una scommessa contro la decadenza della materia e la forza corruttrice del tempo. Per meglio dire, sono un’opzione gettata sull’evoluzione della materia organica, che la sottrae dal suo ciclo di nascita, maturazione, morte e disfacimento per germinare nuova vita, fermandola in uno stato ottimale. Questa operazione avviene secondo dei principi che la scienza moderna comprende appieno come abbattimento della carica batterica e dell’ossidazione, ma che anticamente erano declinati secondo la specie, forse più poetica ma certamente meno lucida, della contiguità e della simpatia: l’alimento da conservare passa per il processo umanizzante della cottura, che trasforma il cibo da nutrimento per le bestie a pietanza civile, e viene messo a contatto con qualcosa che ha una maggior durata, come l’olio, l’aceto, il sale o, in modo forse paradossale, il fumo.

In questo suo agire in sinergia con altri ingredienti, la conserva è un punto di convergenza delle tecniche di preparazione e conservazione dei cibi, ma anche una fondamentale estensione del lavoro di contadini, allevatori e pescatori. Chi semina un campo investe nel futuro, chi cura un armento ha fiducia nella sua capacità di sopravvivere alle insidie e di moltiplicarsi, chi esce per mare si espone ai casi, ai rischi e alle incertezze. La conserva, allora, è in primo luogo un’assicurazione contro le cattive annate, un modo per distribuire l’abbondanza di oggi sulla possibile scarsità di domani; ma è anche una maniera per moltiplicare l’abbondanza, portando in tavola tutto l’anno alimenti che sarebbero relegati a una sola stagione, insomma per spostare l’eccedenza nel tempo. Un’eccedenza che si può spostare anche nello spazio e, infatti, i cibi conservati sono stati per secoli protagonisti delle grandi rotte commerciali: dal baccalà e lo stoccafisso, che dall’Atlantico centrale arrivavano in tutta Europa, alle confetture di frutta che allietavano le tavole dei nobili e dei ricchi, fino al piccolo, ma vitale, commercio tra Liguria e Piemonte che, con l’olio della Riviera, ha dato origine alla grande tradizione langarola dei sottoli.

Le conserve, insomma, sono alla base di uno straordinario sviluppo commerciale e di un’intera industria, che hanno trasformato agricoltura, allevamento e pesca, da attività quasi completamente assorbite nel consumo locale a produttrici di beni per il commercio e l’esportazione. In questo modo, hanno dato un contributo fondamentale a tessere quella grande rete di commerci su cui l’Europa ha, nel tempo, costruito la propria industrializzazione. Con i commerci, poi, viaggiano le idee e si allargano le mentalità, contribuendo allo sviluppo culturale e tecnologico: si chiameranno pure conserve, ma certo il loro contributo non è stato affatto conservatore!

È facile ripercorrere tutta questa storia assaggiando le deliziose cipolline borettane alla brace in olio d’oliva: l’eccellenza tipica di un territorio ben definito (il comune di Boretto, da cui vengono queste famose cipolle, si trova vicino a Reggio Emilia e la loro coltivazione si è diffusa anche nel parmense e nel piacentino), che attraversa un processo di preparazione articolato (prima una breve bollitura in acqua e aceto, poi la cottura alla brace, infine la conservazione sott’olio) per arrivare ovunque e trovare infiniti abbinamenti. La loro consistenza croccante, con l’esterno appena ammorbidito dalla cottura e dall’olio di conserva e l’interno che impegna piacevolmente la masticazione, il sapore dolce ma deciso, la nota di fumo e carbone della brace, le rendono un piacere di gradevole complessità, capace di dare gusto a diversi momenti e negli abbinamenti più vari. Ottime semplicemente mangiate da sole, pescate direttamente dal barattolo in quei momenti in cui abbiamo davvero bisogno, diventano decisive in un’insalata o in un bel panino, che sono capaci di arricchire con una nota inattesa e un improvviso arricchimento di profumi e consistenze. Davvero sontuose, poi, se aggiunte all’ultimo momento al sugo dell’arrosto o del brasato, dove la loro croccantezza aggiunge un contrappunto al gioco morbido della carne e della salsa, mentre la dolcezza ne accarezza la sapidità. Il mio abbinamento preferito, però è con un buon pecorino delle crete senesi non troppo stagionato. Tanto sono restio alla moda di coprire, anzi di affogare i formaggi in mostarde e mieli, quanto mi piace abbinarli, con più discrezione e forse maggiore fantasia, a sottoli e sottaceti, per giocare di contrasti e consistenze, affiancarli, sovrapporli, assaggiarli da soli e poi insieme. In questo caso, poi, l’abbinamento segue un’affinità elettiva: già pane, formaggio e cipolla si portano dietro tutto un pezzo di civiltà contadina, memore di fatiche e umili piaceri, poi la morbidezza compatta del pecorino toscano di questa età, il suo sapore ancora ricco di latte ma già ben definito dalla stagionatura che ne sviluppa i tipici sentori di noce, la sua sapida dolcezza si completano, senza contrasti, con la ricchezza della cipollina; la piacevole untuosità della conserva avvolge cacio e cipolla, la masticazione si impegna senza troppa fatica ma con grande soddisfazione, il retrogusto rimane ricco e variegato, di brace e di pascolo lontano. Tutta una storia, in due soli ingredienti.

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