Con il termine “classico” i latini intendevano il primo della classe, l’esemplare perfetto, il punto di riferimento di tutta una serie di oggetti simili: per esempio, nella legione, la prima centuria era definita “classica” proprio perché era composta dai migliori elementi e, fin dal secondo secolo d.C., “autor classicus” (definizione di Aulo Gellio) indicava uno scrittore la cui eccellenza lo elevasse a modello nel suo genere. Il classico, dunque, ha cinque caratteristiche essenziali. In primo luogo, la compiutezza: un classico non può essere un abbozzo, una promessa, un progetto, ma deve essere un prodotto completo, a cui non si debba, e nemmeno si possa, aggiungere nulla. La seconda caratteristica è la notorietà: per essere tale, un classico deve essere conosciuto almeno all’interno della sua comunità di riferimento, per quanto piccola e specialistica (un “classico negli studi di iconologia bizantina”). Poi, ne deve essere riconosciuta l’eccellenza: all’interno della comunità di riferimento, tutti o quasi devono condividere un giudizio estremamente positivo su ciò che si definisce classico. Inoltre, c’è la fondamentale caratteristica dell’esemplarità: un classico è tale se a esso può essere ricondotta una serie di realizzazioni analoghe, che nel classico trovano, appunto, compendio, misura e riferimento. Infine, la versatilità: affinché un classico possa essere definito davvero tale, deve poter essere usato e interpretato in diversi modi, per poter fare da punto di riferimento in situazioni, epoche e contesti differenti: non appena cessa di essere fungibile, perché mutano le esigenze, smette di essere un classico.
Queste cinque caratteristiche, a loro volta, sfociano in un ulteriore attributo, non necessario ma che spesso ne è la diretta conseguenza, ossia la tradizionalità, nel senso che si radica in un qualche passato, più o meno recente a cui il presente si rivolge. Questo elemento di tradizione fa sì che i classici vengano situati in una dimensione largamente immaginaria, con forte investimento emotivo, tanto che il nostro rapporto con essi sia così centrale nella formazione della nostra identità.
La cucina è una pratica fortemente culturale, sia nel senso che plasma il modo di sentire e l’organizzazione della vita di comunità ampie e coese, sia nel senso che è un insieme di pratiche sostanzialmente ben descrivibili e che possono essere insegnate e trasmesse. Come ogni formazione culturale, i classici vi occupano, infatti, un ruolo centrale. Lo si vede, con chiarezza, quando si impara una nuova cucina: non si può dire di padroneggiare la cucina coreana se non si è preparato un kimchi come si deve, quella francese senza aver mai fatto una mousse au chocolat o un bœuf bourguignon, quella piemontese se non sappiamo cucinare il brasato.
La brasatura è una tecnica di cottura complessa ed estremamente raffinata, che ha un protagonista indiscusso, il taglio di carne, e una serie di comprimari di valore e sostanza, con il soffritto che è un classico a sé stante: cipolla, sedano e carota, a cuocersi con estrema lentezza, a consumarsi in una salsa densa e profumata. Questa guancia di vitello ne è una perfetta illustrazione, con la carne che rivela la perfezione della sua cottura nel momento cruciale del taglio, in cui la lama, orientata obliquamente per scaloppare, divide le fette con precisione, che restano morbide ma compatte, perfettamente umide anche al centro e ben composte, senza sfibrarsi. In bocca, carne e salsa formano un tutt’uno, con una speziatura leggerissima che si limita a sottolineare e definire la succosa delicatezza della carne e i generosi profumi delle verdure e della passata di pomodoro, capaci di rievocare case e nonne. Accanto, per assorbire i succhi e fornire uno sfondo adatto allo spessore della carne e della salsa, ho messo delle patate semplicemente cotte al forno in fogli di alluminio e, per dare un contrappunto quasi ironico a quest’armonia così perfettamente bilanciata, un’insalata di carciofi e parmigiano, fresca e croccante.L’abbinamento è quasi ovvio, ma comunque mai scontato: il brasato vuole un Barolo come questo, generoso fino alla prodigalità, intenso, profumato ma sempre controllato, senza quelle spinte un po’ aggressive che avrebbero potuto mettere in imbarazzo la delicatezza del vitello. Anche i tannini finali, giustamente astringenti, per lasciare che la persistenza dell’aroma di viola del bicchiere continuasse a giocare con quelli del piatto togliendo ogni ombra di grasso, sono comunque rotondi, carezzevoli più che acidi. Brasato e Barolo, un classico confortevole, avvolgente e buono.