Mangiare, secondo una definizione molto efficace di Carlin Petrini, è un atto agricolo. È dalla terra che viene ciò che arriva sulle nostre tavole, anzi, dalle diverse terre e delle loro peculiarità climatiche, pedologiche, orografiche e idrogeologiche, plasmate dal lavoro e dalla sapienza dell’uomo. Nel piatto, entriamo in contatto con il lavoro che c’è dietro, con tutti i processi che hanno presieduto alla nascita e alla lavorazione di ciò che è divenuto nostro cibo. Questi processi, a loro volta sono, il risultato di una lunghissima, duplice evoluzione: quella che ha dato forma agli organismi di cui ci nutriamo e quella che li ha curati, selezionati, coltivati, allevati, lavorati e infine cucinati.
In questa filiera lunga e nella sua conoscenza sta il grande sapere che rende il mangiare un atto così ricco e stratificato. Qui sta anche il rischio di sacralizzare eccessivamente tutta questa stratificazione, imbalsamandola in pratiche codificate e immutabili, dando alla tradizione e alla denominazione di origine un valore quasi di feticcio: a rendere davvero unico ciò che mangiamo, a dargli quel sapore straordinario non sono strane magie, ma una serie di tecniche e processi che possono essere analizzati e descritti, ma non sempre replicati. Alcuni territor sono, infatti, unici: qui le particolari circostanze di esposizione, altitudine, composizione del suolo, unite a tecniche di sfruttamento del terreno realizzate proprio in quei luoghi e difficili da replicare altrove, producono delle condizioni uniche, da cui la sapienza millenaria di chi ci vive e ci lavora ha saputo trarre frutti impossibili da ottenere altrove.
La riviera Ligure è uno di questi territori unici. Tra mare e montagna, una serie di minuscoli spicchi di terra accatastati in terrazze l’uno sopra l’altro definisce un suolo agricolo marginale e precario, da sempre destinato a coltivazioni di grande valore, all’olio, al vino, ai fiori: ciò che dà gusto e lustro alla vita, per cui vale la pena di ricavare superfici coltivabili dove non dovrebbero nemmeno esserci. Ovviamente, questa coltivazione nasce per lo scambio e il commercio: scavalcando la montagna, in modo da creare un connubio straordinario con i frutti e le ricette di Langhe e Monferrato, per dare vita a una cucina che sa di mare e montagna, campo e bosco, ricca della sua eterogeneità. Oppure prendendo il mare, per incontrare altre terre e altri sapori, dalle grandi isole vicine alla costa occidentale d’Italia, fino alla Francia e alla Spagna.
Protagonista di questa rete di scambi e del territorio che sta al centro di questa rete è l’oliva taggiasca. Frutti piccoli ma estremamente saporiti, prodotti da una pianta che raggiunge grandi dimensioni e ha una produttività elevata e costante, con una maturazione tardiva, tanto che la raccolta si fa metà gennaio: insomma un albero tenace e generoso, che ripaga dell’investimento fatto con un raccolto pregiato e versatile, visto che le taggiasche sono tra le poche olive buone da spremere e da mangiare. Buone da mangiare e da conservare, perché le taggiasche vengono da sempre mandate in giro, lungo tutta la rete di commerci che proprio questo territorio, così risicato, ha saputo sviluppare. La conservazione delle olive, poi, è un’altra arte: un’adeguata maturazione in salamoia, poi confezionamento in olio buono, per mantenerne, affinarne ed esaltarne il sapore, l’aroma e la consistenza.
per poterle spedire, sott’olio dopo un’adeguata maturazione in salamoia, in giro per la rete di scambi e commerci che proprio un territorio così risicato ha saputo sviluppare.Ecco allora queste olive taggiasche snocciolate sott’olio evo, che arrivano alla mia tavola con tutta questa storia alle spalle e con la cura di una produzione orgogliosamente biologica. Una piccola parentesi: se le vogliamo consumare così come sono, direttamente dal vasetto, allora prendiamole snocciolate; se invece le vogliamo usare per cucinare, per esempio per una bella cacciatora o un arrosto, allora è meglio prenderle con il nocciolo, che fa rilasciare ancora più sapori e permette all’oliva di rimanere integra nella cottura. Ma torniamo al quello che ho davanti: olive che si fanno masticare con gusto, la buccia bella integra e la polpa carnosa, né dure né troppo cedevoli. L’olio, ovviamente extra vergine, 100% italiano e biologico, le avvolge, con i suoi profumi dolci a far da contrappunto alla nota amarognola che chiude la carnosità aromatica dell’oliva. Sono perfette così, da piluccare con uno stuzzicadenti o da adagiare su una soffice focaccia ligure, ma anche su una fetta di pane integrale con la giusta acidità. Raggiungono l’apoteosi con un pecorino fresco o anche una robiola, la cui morbidezza accoglie la consistenza dell’oliva. Di gran carattere, ma pronte per ogni connubio: proprio come il territorio che le ha prodotte.