Secondo un detto attribuito da de Brosses a Vittorio Amedeo II di casa Savoia (1666-1732), “l’Italia è come un carciofo, va mangiata foglia per foglia”. Da qui si può capire quanto profondamente i Savoia fossero francesi, almeno all’inizio del Diciottesimo secolo: a farsi sfogliare, per mangiare il tenero della parte interna e buttare la scorza, sono i carciofi spinosi di Francia, non certo le gloriose mammole romane o i carciofi di ALbenga, quelli pugliesi, sardi e nemmeno le castraure di Venezia. Non è tanto l’Italia a essere un carciofo, quanto sono i carciofi a essere italiani.
Non lo sono soltanto per le molte varietà regionali o per le tante ricette in cui compaiono, spesso da protagonisti: nel carciofo si trova una specie di sintesi degli aspetti migliori dell’italianità, una sorta di ideale a cui dovremmo far riferimento, specie in una fase caratterizzata da un generale sconforto, in cui emergono i nostri tanti, troppi, lati negativi. Innanzitutto, il carciofo è un miracolo di design: un fiore che sembra un frutto che sembra un gioiello dell’architettura barocca, progettato con straordinaria efficacia: la robustezza strutturale dei petali copre e protegge la morbidezza dell’interno ma si lascia aprire e pulire con facilità a chi ne possiede la tecnica. Poi, perché concede le sue maggiori gioie a chi ne esplora le parti meno ovvie: il fondo, protagonista di quel miracolo di gusto e consistenza che è il carciofo alla giudia, i gambi, profumati e compatti che diventano creme e zuppe di rara raffinatezza con un paio di semplici operazioni e pochi ingredienti.
Soprattutto, il carciofo ha dell’Italia, e l’Italia del carciofo, il dono della versatilità: si adatta a decine di preparazioni e cotture, della frittura alla stufatura, dal taglio fine per mangiarlo crudo in insalata all’arrostitura sulla brace e, in questa miriade di lavorazioni e accostamenti, mantiene sempre il suo carattere, con la sua consistenza tenera e carnosa, il sapore insieme dolce e un po’ metallico, il profumo delicato e pungente. Un perfetto equilibrio di tratti apparentemente contraddittori, flessibile ma con grande personalità, che si presta a molteplici interpretazioni sulla base di tecniche raffinate quanto semplici: ecco, questi sono gli ingredienti principali di quella capacità di armonia, insieme naturale e raffinata, che è il tratto migliore della nostra storia e della nostra cultura. Per celebrare tutto questo, apro un vasetto di carciofini rustici lavorati dal fresco in olio di oliva. Sono carciofini sardi freschissimi, lavorati appena colti e conservati in una complessa concia aromatica, con aceto, chiodi di garofano, alloro, cannella, peperoncino e aglio, oltre ovviamente a un ottimo olio di oliva rigorosamente italiano. Questa ricchezza di aromi e profumi raggiunge l’armonia dei contrasti: ad assaggiarne la punta di un cucchiaino, direttamente dal vasetto, si sente la morbidezza dell’olio avvolgere tutte queste note squillanti, che si succedono in una scala continua, dalla potente rotondità del chiodo di garofano alla dolcezza acidula della cannella, dall’aggressività decisa di aglio e peperoncino alle note aromatiche dell’alloro, con la lama dell’aceto che ripulisce il naso e la bocca e li prepara all’evento principale: il carciofino. Mi piace masticarlo intero, con la sua carnosità tenera e cedevole ma ben compatta, il profumo inconfondibile che si fa strada con decisione tra gli altri aromi, la grazia vegetale che ne riveste una nota minerale, ferrosa, capace di darle la giusta solidità. Un profumo che si mangia, un sapore che continua ad aleggiare nel naso. E che, come tutte le sue componenti, si esalta al quadrato in ogni abbinamento, con un buon pane fragrante e ben alveolato, un formaggio compatto e saporito (ma anche morbido e cremoso, come uno stracchino), un salume ricco e speziato, ma anche una bistecca o persino un hamburger. Ecco il carciofo, ecco l’Italia, non una foglia alla volta ma tutta intera, ricca e varia.