La scoperta, o conquista che dir si voglia, delle Americhe ha avuto molti effetti, di varia entità e diverso segno. Senz’altro si può dire che abbia arricchito le nostre tavole e trasformato in profondità il modo in cui si mangia, si cucina, si coltiva. Senza le patate, probabilmente, le terre dell’Europa settentrionale avrebbero faticato a uscire dalla loro arretratezza economica rispetto alle zone più calde del continente e secoli di storia avrebbero assunto una piega diversa; senza il pomodoro, la cucina mediterranea sarebbe ben diversa e senza il cioccolato la vita sarebbe più triste.
Però, per quanto dobbiamo alle Americhe, mi sento di dire che, almeno in un caso, il loro contributo alla tavola non è stato di segno positivo. Non parlo del junk food e di tutte le altre porcherie, che sono comunque evitabili, ma di come il tacchino abbia sostituito l’oca nelle aie e nei cortili d’Italia e d’Europa, in nome di una carne forse più magra e più sana, ma certo molto meno saporita. L’oca è uno splendido animale da fattoria, che fornisce uova, piume e carne, capace di farsi rispettare e perfettamente inserito nell’ecosistema dei prati e dei ruscelli: un animale generoso e volitivo, con un posto ben saldo nella sapienza contadina e nella cultura classica, tanto da essere citata già in Omero (Odissea, libro XIX, 535-552), oltre che nel celebre episodio del Campidoglio.
La carne d’oca è cibo ricco: arrosti sontuosi, trionfali pasticci (o paté che dir si voglia), umidi e sughi opulenti; con l’oca facevan festa, quando potevano, i contadini, ma non sfigurava certo sulle tavole dei re (con le parole di Teofilo Folengo, gran poeta dei sogni di abbondanza, “trenta tagliatori non cessano di rompere le carni e smembrare oche e vitelli e gialdi capponi; ficcano le forchette entro grossi salsicciotti e tagliano col coltellone affilato fette su fette”, Baldus, cap. 10). All’insegna di questa tradizione gioiosamente eccessiva metto anche la volta che ne cucinai una intera, allo spiedo, nel camino di una casa nella campagna toscana, facendo una salsa con le interiora, una di mele e vino, un robusto brodo di zampe e testa, e patate e cipolle rosolate nel grasso della leccarda: una vera sinfonia da ghiottoni, con la pelle croccante e la carne soda, generosa di succhi e saporita di ricordi, vissuti e immaginati.
Sono queste qualità ad aver reso l’oca ottimo sostituto del maiale per chi non può mangiarlo. La tradizione ebraica, in tutta Europa, ha imparato a trarre da questo volatile splendidi salumi, dal prosciutto al petto affumicato, da diversi tipi di salame fino a quella rara delizia che è il salame di collo, con la pelle riempita di carne selezionata e generosamente speziata (un altro ricordo personale: quello di un collo d’oca ripieno di crema di lenticchie, assaggiato in un ristorante kosher di Budapest una vita fa).
Tutti questi sapori e ricordi si sono accavallati (ognuno ha le sue madeleine) quando ho messo le mani, e subito dopo i denti, su questo splendido salame d’oca in purezza, senza altri tipi di carne. Una delizia morbida e scura, in cui i pezzetti di grasso sono abbastanza grossi da farsi sentire un istante sotto i denti prima di sciogliersi in bocca, un sapore delicato e deciso, carnoso e pepato. L’equilibrio dei sapori e delle consistenze è raggiunto, come in tutte le cose buone, dalla generosità di ogni accento, dalle timbriche decise del gusto che trasmettono, al tempo stesso, opulenza e armonia. Come ogni vero insaccato, questo salame ha diverse anime, che si rivelano con piccole variazioni di calore: a temperatura ambiente è sodo e rinvigorente, in una focaccia calda si fa languido e voluttuoso, a rondelle nella zuppa di legumi è ricco e deciso. Evocativo, questa è la parola: una delizia del genere ti fa rivivere anche le storie che non hai mai vissuto.