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Il cotto e il cucinato

La cottura dei cibi è uno dei passaggi chiave dell’evoluzione della nostra specie, tanto da essere uno dei segni fondamentali del passaggio dallo stato animale a quello propriamente umano. Resta valida, anche il questo senso, la lezione di Claude Lévi-Strauss che nel Crudo e il cotto parte proprio dai miti sull’origine della cotture dei cibi per rintracciare gli archetipi fondamentali con cui l’umanità si rappresenta come altra dal mondo naturale. Anche i miti della Grecia classica forniscono chiare indicazioni in questo senso: le due azioni con cui Prometeo favorisce gli uomini a discapito degli dei sono il furto del fuoco e il suo dono agli uomini, e la suddivisione della carne dei sacrifici che, ancora una volta, favorisce gli uomini lasciando loro tutte le parti commestibili.

Se la cottura dei cibi ha rappresentato uno straordinario acceleratore evolutivo, che ha aperto ai primi ominidi l’accesso a fonti alimentari prima precluse e ha reso possibile la conservazione e l’assimilazione di grandi quantità di cibo, la cucina rappresenta un passo ancora successivo. Con l’arte della cucina, infatti, trasformiamo il cibo per incrementare il piacere che ne proviamo, al di là delle nostre necessità di sussistenza. Cucinando, sviluppiamo saperi e tecniche il cui fine non è solo quello di tenerci in vita, ma di trasformare la nutrizione da bisogno animale a pratica sociale, culturale, umana. Dalla cucina, poi, viene la tavola: non ci si riunisce solo per nutrirsi ma anche per condividere i piaceri del gusto, ristorarsi dalle fatiche, raccontarsi storie: a tavola, nei convivi si parla, si discute, si fa cultura, si celebra la pace, si combinano matrimoni, si stringono alleanze, si fa festa.

Il legame che ci unisce con la cucina è, come aveva già visto Lévi-Strauss, fondamentale per il nostro senso di umanità; assaporando la complessità di un cibo ben cucinato, riconoscendo sapori e profumi noti e scoprendone di nuovi, ci ricolleghiamo a uno dei tratti fondamentali del nostro essere umani e rinsaldiamo i rapporti con gli altri. Del cibo cucinato, poi, si danno due versioni diverse ma ugualmente importanti: quello preparato da sé e quello fatto da altri. Il primo ci pone all’origine di tutto il processo, ci mette in contatto con la materia e le forze che la plasmano, ci fa programmare il lavoro rispetto al risultato da ottenere e, soprattutto, ci dà la possibilità di condividerlo con gli altri. Il secondo ci mette nella posizione, non meno importante, di chi riceve un dono, lo apprezza, lo condivide e lo ricambia.

Confesso che questa seconda prospettiva, per me, è abbastanza insolita: sono io a cucinare a casa e ammetto di esser fiero dei risultati che ottengo normalmente; certo, ci sono i ristoranti e i posti dove mi capita di essere ospitato, ma in genere nella mia cucina sono io a spignattare e nessun alimento precotto, o anche solo preparato, varca la mia soglia. Il motivo che mi ha fatto assaggiare questo petto d’oca al pepe verde è stato, quindi, soprattutto la curiosità, unito alla fiducia verso chi lo produce. Bene, non ne sono rimasto deluso: è proprio buono, per dirla nel modo più semplice. Il gusto deciso e delicato insieme dell’oca, la sua nota quasi di cacciagione, è rimasto ben percepibile, a testimonianza sia della qualità della carne di partenza, sia dell’amorevole rispetto con cui è stata preparata. La tecnica della preparazione merita un piccolo approfondimento: dopo una marinatura con spezie, vino bianco, rosmarino, aglio, succo di limone, olio di oliva, pepe bianco e naturalmente pepe verde, viene sgocciolato e imbustato con olio evo per una cottura lenta a bassa temperatura, lo rende tenero e lo cuoce senza asciugarne la succosità. A questo punto, a me non è restato che aprire la busta sigillata e versare tutto in padella, per cuocerlo a fuoco medio esattamente sei minuti. Mentre scaloppavo la carne, ho aggiunto due dita di un buon rosso per fare una piccola riduzione, con cui ho generosamente irrorato le fette di petto; un bel piatto di spinaci alla panna e via a far festa.

Il lato interessante di questa preparazione è proprio il suo carattere professionale, da azienda che fa le cose per bene con le attrezzature e i tempi che solo una lavorazione su larga scala si può permettere in modo efficiente. Insomma, non è stata fatta una lavorazione simile a quella che tipicamente si farebbe a casa (per esempio, la brasatura o la grigliatura), ma si sono usate tecniche, come la marinatura a temperatura e umidità controllate e la lunga cottura in busta a vapore a bassa temperatura, che sono difficilmente replicabili in una normale cucina di casa. Il risultato è un piatto sostanzialmente pronto, sapido, aromatico e, per così dire, puro nel suo rispetto della carne che, proprio grazie a questo processo, resta gradevolmente rosata all’interno, morbida ma ben masticabile, asciutta di sapore ma non nella consistenza. Tutti gli aromi e i profumi, specie quelli del pepe, sono ben riconoscibili e bilanciati, ma non coprono né confondono il protagonista, il petto d’oca.

Vicino ci ho bevuto un gran Barbaresco, che avevo scelto inizialmente per un motivo sbagliato, e cioè perché confidavo nei suoi robusti tannini per asciugare un possibile eccesso di untuosità dell’oca. Non ce n’è stato bisogno, perché la carne era perfettamente equilibrata, ma il vino ha comunque aggiunto una spinta in più che l’oca ha saputo ben accogliere e rilanciare. Quanto al resto, l’eleganza e la finezza della struttura di questo vino da re, reminiscente di boschi e selvaggine, si sono ben sposate alla robusta sapidità del petto, aggiungendo un ulteriore strato di ricchezza e profondità a una bocca che non si stancava mai di ripetere l’esperienza. Alla fine, le danze sono continuate nella persistenza degli aromi, con il naso irretito dai profumi di legno e sottobosco e il palato che indugiava negli ultimi sentori di selvatico.

Una cena di boschi e colline, nebbie e suoni ovattati, arrivata in casa pronta per essere stappata e spadellata: se vogliamo parlare di civiltà, ecco un bell’esempio.

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